Il quinto appuntamento della nostra rubrica di approfondimento #ssfinsight è dedicato alla calciatrice Nadia Nadim, nata in Afghanistan nel 1988 in una famiglia agiata, ma che comunque subiva le limitazioni del regime imposto dai Talebani. Da piccola non poteva giocare a calcio se non nascosta nel suo cortile dove non la vedeva nessuno, perché è una femmina e in quanto tale per lei lì era vietato e comunque il calcio non era uno sport apprezzato perché visto come uno dei prodotti per la distrazione di massa e la colonizzazione occidentale.
Il momento più duro per la sua famiglia è arrivato mentre lei aveva appena 10 anni, quando il padre, un Generale dell’Esercito Afghano, venne sequestrato e poi ucciso dai Talebani. La madre, per proteggere le figlie dal clima di terrore, oppressione e tristezza decise di portare via le sue figlie, scappando verso una meta incerta ma lontana da quel clima di terrore, oppressione e tristezza. Viaggiando con mezzi clandestini e passando dal Pakistan e dall’Italia, trovarono finalmente accoglienza in Danimarca, in un campo per rifugiati. Anche lì la vita non è semplice, ma Nadia trova un pallone e altre bambine che giocano a calcio e da lì il suo sogno prende vita.
Lo sport diventa un mezzo di comunicazione e integrazione attraverso il quale farsi capire senza bisogno di saper parlare troppo bene una lingua per lei ancora nuova, e appena la situazione familiare glielo permette comincia a giocare diventando sempre più brava.
A 16 anni viene notata e ingaggiata per la prima volta in una squadra professionista e poi la sua carriera calcistica decolla, regalandole un grande riscatto sociale. Nel frattempo Nadia decide di non accontentarsi e dà il massimo anche a scuola, per poi iscriversi all’Università di Aarhus dove ha studiato e si è laureata in medicina.
Sfruttando la sua notorietà e la sua visibilità Nadia in diverse occasioni si è fatta promotrice di buone cause, per promuovere l’uguaglianza e la parità tra generi, ma anche la speranza e la tenacia nell’inseguire la luce dei propri sogni anche per chi vive momenti bui come è capitato a lei, sempre riconoscendo che la possibilità che le è stata offerta non è qualcosa che tutti hanno la fortuna di ricevere.
Per questo l’UNESCO l’ha nominata “campione per l’educazione dei giovani” e ambasciatrice, la Nazionale di calcio femminile Danese ha fatto di tutto per averla in squadra e nel 2017 è stata scelta come “Danese dell’anno”.
Una storia come la sua, per noi di Sport Senza Frontiere, diventa simbolo di quello che vorremmo restituire alle tante bambine e ai tanti bambini che inseriamo nei nostri progetti. Lo sport è un diritto e un mezzo attraverso il quale trovare una strada, una pratica che si lega al diritto all’educazione, all’inclusione e che grazie al suo forte potere aggregativo è in grado di generare spazi di uguaglianza per tutti.
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Sport Senza Frontiere
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