“A me la scuola non piaceva per niente. Preferivo fare sport, che era la scusa perfetta per stare lontana dai libri. Gli anni ’80 in Inghilterra non erano un periodo facile, in tutta la scuola ero la sola ragazza di colore. I miei genitori erano arrivati lì dalla Giamaica ed erano dei grandi lavoratori. Ogni anno, a scuola, organizzavano lo “Sports day” e tutti potevano venire a vedere i propri figli competere in diverse discipline. Io correvo sempre le 50 yard e vincevo tutte le volte, anche contri i ragazzi. Mi era capitato di guardare l’atletica in televisione, qualche volta, ma non pensavo che sarei mai potuta diventare come loro, per me era solo un gioco. Ero molto naïf.”
Di certo, all’epoca, FIONA MAY non immaginava che sarebbe diventata l’atleta italiana che più volte è salita sul podio ai campionati del mondo di atletica leggera.
Diventata cittadina italiana per naturalizzazione nel 1994, esordisce nella nazionale azzurra nello stesso anno agli Europei di Helsinki, dove conquista la medaglia di bronzo in quella che sarà la sua specialità, il salto in lungo. Segue una carriera ricca di successi, fra cui un’altra medaglia europea – d’argento – a Budapest nel 1998, 2 medaglie d’oro mondiali a Göteborg nel 1995 ed Edmonton nel 2001, un argento a Siviglia 1999, un bronzo ad Atene 1997, e due argenti olimpici ad Atlanta 1996 e Sydney 2000.
Detiene il record italiano del salto in lungo outdoor, che ha migliorato sette volte fino ad arrivare all’ultimo proprio in occasione di una medaglia (Budapest ’98), con 7,11 m. Quello indoor glielo “ha strappato” da pochi giorni la figlia Larissa Iapichino.
Chiusa la carriera sportiva nel 2006, si laurea in materie economiche all’Università di Leeds.
In Figc dall’agosto 2014 ricopre il ruolo di Presidente della Commissione per l’integrazione.
“Gli italiani mi hanno dato un amore che non avrei mai immaginato. Non ho mai sentito un minimo di discriminazione sulla mia pelle. Mai. Mi hanno chiamato: Miona Fay. Impreciso, ma dolce.Non l’inglese naturalizzata. Non quella che ha sposato un italiano. Non la ragazza di colore. Oggi, io mi chiedo, per quante delle nostre atlete azzurre di seconda o terza generazione basta un nome ed un cognome, e per quante invece si sente il bisogno di sottolineare che sono simbolo di qualcosa? Proprio, loro nate e cresciute qui, a differenza mia. Lo sport è un linguaggio universale, è una responsabilità di tutti assicurarci che nessuno lo usi a sproposito.”