di Fabio Bocci
Membro del Comitato tecnico Scientifico di Sport Senza Frontiere. Professore Ordinario di Pedagogia presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Roma Tre.
C’è un giorno che ci siamo perduti
Come smarrire un anello in un prato
E c’era tutto un programma futuro
Che non abbiamo avverato
È tempo che sfugge, niente paura
Che prima o poi ci riprende
Perché c’è tempo, c’è tempo c’è tempo, c’è tempo
Per questo mare infinito di gente
(Ivano Fossati, C’è tempo)
Come on and open up your hearts
(Bruce Springsteen, Dream Baby Dream)
È difficile parlare di educazione o di temi legati all’educazione in questo momento di emergenza per la pandemia Covid-19. Lo è anche per chi se ne occupa come campo di studi.
Perché dico che è difficile?
In primo luogo, perché si corre il rischio di essere banali o di scadere nella precettistica, ponendosi (anche se sollecitati) nella posizione (forse pretesa) di essere in grado di fornire consigli se non, addirittura, di indicare linee guida di comportamento.
In secondo luogo, strettamente connesso al primo, perché le situazioni che stanno vivendo bambine e bambini, ragazze e ragazzi e le loro famiglie (nell’accezione più ampia che questo termine oggi assume) sono davvero tra le più disparate: da chi sta affrontando tutto questo nella più completa serenità a chi la sta vivendo nella più totale difficoltà. Pertanto, a meno che non si voglia delineare una serie di riflessioni a partire da una casistica, con risposte mirate a ciascuna delle situazioni possibili, dire qualcosa che possa andare bene per tutti è una impresa oltre che impossibile addirittura presuntuosa. Se c’è una cosa che questa emergenza ci sta facendo comprendere, è che per troppi anni abbiamo fatto finta che tutto andasse bene, che il sistema scolastico/sociale fosse equo (magari perché abbiamo ottime leggi sull’inclusione e una splendida Costituzione che ci ispira e guida), che i figli/alunni/studenti (a seconda dello sguardo da cui li osserviamo) fossero/siano tutti uguali, avessero/abbiano le stesse opportunità. Sapevamo che non era così, ma abbiamo fatto finta che lo fosse.
Ecco, questo ora, dinanzi alla tragedia, almeno lo abbiamo imparato (lo stiamo imparando): a non fingere o, nella migliore delle ipotesi, a non illuderci e crogiolarci nel politicamente corretto.
Certo, può apparire ingiusto dire che tutti hanno fatto finta di nulla o si sono illusi. Sappiamo che non è così. Insegnanti specializzati per il sostegno, insegnanti curricolari sensibili alle differenze, studiosi dell’educazione, educatori e altre figure che operano nel sociale (come gli straordinari amici di Sport Senza Frontiere Onlus) lo sapevano bene, ne erano a conoscenza, tanto che ne hanno fatto (e non da ieri, ma da tempo) s-oggetto del loro agire, addirittura in molti casi una ragione di vita. Così come lo sapevano/sanno, proprio quei bambini/bambe, ragazze/ragazzi che, ora nel ruolo di figli, ora di alunni/studenti, ora di figure socialmente emarginate (e con loro le famiglie) lo vivevano/vivono quotidianamente e ne rappresentano la testimonianza più lampante (e indiscutibile).
Ma evidentemente non è stato sufficiente che una parte della popolazione (per coinvolgimento diretto o per interesse di cura) avesse consapevolezza di questo stato di cose per far sì che non si determinassero (e ora acuissero) le condizioni di povertà, diseguaglianza, svantaggio, marginalità, e così via. Non è stato sufficiente perché una delle ragioni per cui si sono venute a determinare (e si stanno ulteriormente determinando) queste condizioni di vulnerabilità è data dall’azione di separazione, scissione, mutilazione sociale che il pensiero neoliberista, mediante il suo apparato politico-economico-culturale (a patire dallo smantellamento del welfare e l’economia del mercato senza scrupoli) ha imposto come unica possibile verità, come contingenza storica ineludibile.
È prevalsa, in questo discorso del/di potere spacciato come discorso di verità, la retorica del sacrificio, come atto inevitabile (interessante in tale senso la riflessione che ha operato Luigino Bruni su Avvenire: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/luigino-bruni-oikonomia-10), addirittura come segno di responsabilità. Naturalmente per la stragrande maggioranza, chiamata a votarsi al sacrificio, ma non per tutti: non per i Padroni del Mondo (come ben li definisce Noam Chomsky) che, anzi, agitando lo spauracchio della paura ora economica (il default, la recessione, ecc..) ora sociale (l’invasione dell’altro, dello straniero…) hanno prevalso, scindendoci in quanto comunità umana costretta sempre più a disumanizzarsi. In nome di una presunta e ormai dichiarata (sempre dagli stessi) crisi strutturale ci è stato chiesto di stringere la cinghia (rinunciare alla sanità pubblica, al tempo pieno diffuso nelle scuole di ogni ordine e grado, al tempo da dedicare ai figli). Ci è stato chiesto/imposto di delegare agli esperti (tecnici di ogni risma) le nostre vite, con la promessa di garantirci una qualche felicità (una sorta di ingegneria comportamentista che si ritrova nel romanzo utopico di Skinner Walden II).
In altri termini, riprendendo Paulo Freire (Pedagogia dell’autonomia), ci è stato spacciato ciò che è di matrice storico-culturale come naturale (quindi ineludibile). E noi abbiamo via via perso la nostra rotta nella storia.
E ora, una Pandemia tanto inimmaginabile quanto tragica sta mostrando le incrinature di questa bolla, nella quale volenti o nolenti siamo tutti racchiusi e fluttuanti.
E in questo stato di incertezza, apprensione, paura, preoccupazione, mi viene chiesto, in quanto studioso dell’educazione, di dire qualcosa a genitori e insegnanti; dire qualcosa su cosa fare in questo momento.
Mi viene da rispondere, citando Ivan Illich (Disoccupazione Creativa), di non fare niente: ovvero, di restare fermi e di provare a immaginare una via d’uscita diversa da quella su cui tutti si stanno gettando (trovandoci in una situazione di panico), solo perché qualcuno ci ha scritto (o ci sta scrivendo) uscita.
Mi viene da suggerire (a partire da me che sto qui parlando attraverso questo scritto) di praticare un silenzio attivo, ossia di ascoltare.
Più che dire, come adulti, dobbiamo recuperare la dimensione dell’ascolto. A partire dall’ascolto di quello che questa società (a partire dalle sue istituzioni educative) ha volutamente e ripetutamente posto fuori dal paniere della vita: il corpo.
Mai come in questo momento stiamo scoprendo quanto sia importante il corpo e la corporeità. Certo, filosofi, psicologi e pedagogisti hanno parlato in questi anni del corpo, della sua importanza, della sua incarnazione nei processi di apprendimento, nella costruzione della conoscenza, nelle spinte (anche pulsionali) verso l’autorealizzazione e l’autodeterminazione (individuale e collettiva). Ma chi li ha letti, siamo onesti? Chi ha dato loro spazio sociale, credibilità e riconoscibilità nell’economia della produzione compulsiva, del prestazionismo abilista, nell’era dell’assimilazionismo al conformismo della società liberista.
Ascoltando gli studenti e gli insegnanti, ora impegnati nella cosiddetta didattica a distanza, emerge con chiarezza quanto manchi nella relazione educativa la presenza del corpo, dei corpi: la vicinanza, la prossemica, la gestualità, il calore, lo sguardo, la sudorazione, l’arrossire, il contatto. Ricordiamoci di tutto questo quando avremo la possibilità di ridurre il distanziamento sociale. Ricordiamoci che questo distanziamento si era già insinuato, c’era dapprima che una normativa emergenziale ci imponesse di indossare le mascherine e di stare almeno a un metro l’uno/a dall’altra/o. Si era insinuato, ad esempio, nella schisi dicotomica e conflittuale tra scuola e famiglia: la prima arroccata (come del resto i medici negli ospedali) in una posizione difensiva, la seconda sempre più diffidente al punto da pretendere, reclamare, ritenere di saperne di più e meglio. Entrambi ingannati dall’ideologia dell’individualismo, che ha trasformato ognuno di noi nell’ombelico del (proprio, personale, privato) Mondo.
Si era insinuato nella schisi, anch’essa dicotomica e conflittuale, tra insegnare e valutare, tra educare e istruire (a chi spetta cosa) tra essere e avere. Si era insinuata nell’inganno che l’istruzione e la formazione servano a trovare lavoro, a partecipare alla competizione economica tra e intra gli Stati (molti dei quali hanno ripreso a farsi chiamare Patria per mandare meglio al sacrificio i cittadini, come non mancava di rammentare Friedrich Dürrenmatt).
E, allora, quando torneremo a quella che qualcuno chiama già nuova normalità ricordiamoci di questa assenza. Ricordiamoci, come genitori, insegnanti e educatori e attori sociali a 360 gradi, che il corpo non è semplicemente uno strumento di locomozione, di svago o, fosse anche, di salute fisica (pensiamo alla retorica dei bambini e dei ragazzi che devono uscire per sfogarsi). È certamente questo, ma è soprattutto il tempio in cui si compie il miracolo e il mistero della crescita attraverso la conoscenza, il luogo sacro dove albergano le emozioni, dove ciò che facciamo – grazie al sentire del corpo – assume significato e senso.
E poi, oltre che ascoltare/ci, dobbiamo riconquistare il tempo: l’ascolto senza il tempo è praticamente nullo, è una finzione; il tempo senza ascolto è perdita (anche di tempo).
Come ci ha straordinariamente illustrato Pekka Himanen (L’etica Hacker), il nostro delegare i nostri corpi e le nostre menti all’economia del profitto (a scuola, in casa al lavoro, nello sport, nelle relazioni sociali, financo in quelle sentimentali) ha determinato la venerdizzazione della domenica. Tutto il nostro tempo, tutti gli spazi esistenziali è/sono stato/i fagocitato/i da questa forma di nuova reificazione che ci ha trasformati da soggettività pensanti a oggetti di produzione. Noi siamo oggi siamo il/nel numero di compiti che facciamo a scuola, in/nel voto che prendiamo o nella media dei voti che risulta ineffabilmente su un registro elettronico (lo studente oggi ha 6.75, 4.35, 8.25 e così via). Siamo in/nel numero di articoli, saggi, volumi (ovvero prodotti) che pubblichiamo come accademici (sempre più in competizione uno con l’altro), siamo in/nel ranking (uno dei tanti) in cui ci hanno collocati, siamola diagnosi che ci hanno affibbiato, siamo anche nell’assenza del lavoro che non ci viene offerto (perché la coperta è corta) o nella sua agghiacciante precarizzazione spacciata per flessibilità. Siamo a tutti gli effetti numeri seriali di una catena di montaggio gigantesca che ci si mostra come un inattaccabile leviatano.
Fa male dirselo, in questo momento vi confesso che mi sta facendo molto male. Ma non dirselo fa ancora più male.
Allora, come mi/ci hanno insegnato degli splendidi adolescenti durante uno degli ultimi incontri pubblici cui ho partecipato, occorre (ascoltandosi) ripartire dal desiderio e da ciò che sogniamo.
Se è vero che dobbiamo immaginare e sognare una nuova normalità, ebbene io desidero e sogno ardentemente la sabatizzazione del venerdì (ancora Pekka Himanen). Sogno persone che sognano una società capace di liberarsi da questo dominio assoluto del dio (volutamente con la d minuscola) denaro. Sogno e desidero una società capace di umanizzare le relazioni e di umanizzarsi mentre le pratica. Una società che si riappropria del proprio tempo e della speranza di renderlo capace di donare benessere esistenziale, di renderci originali nella nostra originarietà. Di avere una vita fiorente (per dirla anche con Amartya Sen), che per quanto mi riguarda (pensando ai dialoghi con l’amico fraterno e collega Alain Goussot) risiede nella possibilità di essere uguali nel nostro diritto a essere diversamente differenti.
Ma per fare questo dobbiamo riprendere in mano la nostra vita, impegnarci in un modo umano di organizzarsi/ci diverso da quello che abbiamo fin qui praticato o, meglio, lasciato che altri ci imponessero di praticare.
È quanto mai necessario ridare nutrimento al sentimento utopico, a quell’anelito autentico e profondo – che nessuno può/potrà mai togliere fino in fondo a nessuno – per una vita migliore. E non solo per noi stessi, ma per l’ umanità intera (perché questo è, in fondo, il vero significato dell’amore, ciò che davvero ci aiuta a guarire).
Abbiamo bisogno di tanto coraggio.
E allora, coraggio,
Riprendiamola in mano,
riprendiamola intera,
riprendiamoci la vita,
la terra, la luna
e l’abbondanza.
(Claudio Lolli, Ho visto anche degli zingari felici)